Campiglia Marittima: pirati e corsari, fatti storici e leggende popolari

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Chi decide di visitare Campiglia Marittima per apprezzare ancora di più il borgo, troverà sicuramente interessante conoscere i fatti e le leggende popolari che parlano di attacchi di pirati e corsari al Borgo e al territorio circostante nel corso della storia.



Proseguiamo quindi la guida su Campiglia Marittima con un nuovo capitolo dedicato ai pirati e corsari e come le loro scorribande hanno caratterizzato la storia di Campiglia Marittima e del territorio circostante.

La Minaccia dei Pirati turchi a Campiglia Marittima e alla Maremma

La Maremma già dai secoli IX e X si trovò ad affrontare rovinosi attacchi e incursioni barbaresche, provenienti dal Nord Africa o dalle stesse basi maomettane sulle coste italiane del meridione. Solo faticosi contrattacchi di principi cristiani riuscirono a frenarne l’impeto.

Ma le incursioni non erano mai terminate ed anzi, dopo la decadenza delle Repubbliche marinare si erano intensificate. Nei primi decenni del 500, grazie all’abilità e all’energia di Solimano II, l’impero Turco tornava a rappresentare una minaccia terribile per l’Occidente.

Sui mari la Grande Porta disponeva infatti di una formidabile macchina bellica che non era rappresentata solamente dalla flotta che ripetutamente varcava i Dardanelli ed incrociava nell’Egeo e nel resto del Mediterraneo, ma anche dalle forze messe in campo dagli alleati Nord-africani, feudatari del Sultano ed espertissimi uomini di mare.

Le squadre navali saracene di La Goletta, Gerba, Tripoli, Meheida,  rappresentavano vere spine nel fianco, sia per la vicinanza alle coste italiane e spagnole, sia per la forza, l’esperienza, e l’organizzazione degli uomini che le guidavano.

Questi, più che pirati, come impropriamente vengono definiti, erano soldati e marinai che conducevano una vera e propria guerra sul mare, fatta di rapide incursioni e di scontri frontali, comunque avanguardie di una grande potenza militare in espansione.

Kayhr ed-Din, detto Ariadeno Barbarossa




Il nome di Kayhr ed-Din, detto Ariadeno Barbarossa per il colore della sua barba, corsaro anatolico divenuto Kapudà Pascià e Ammiraglio del Mare del grande Solimano, ricorre in tutte le leggende ed i ricordi popolari del nostro territorio. Non esiste castello, torre, avamposto, diroccato ed abbandonato che non venga legato alla sua presenza armata; e questo anche se il Barbarossa citato, nella distorsione della memoria orale, ora ad un generico e feroce soldato, ora all’imperatore Federico I.

Kahir Ad-Dìn (anche detto Ariadeno Barbarossa o Haradin). Immagine da Wikipedia
Kahir Ad-Dìn (anche detto Ariadeno Barbarossa o Haradin). Immagine da Wikipedia

I Pirati minacciano Campiglia

Kayhr ed-Din dal 1533 è l’indiscusso protagonista della guerra “di corsa” nel Mediterraneo e più volte, dalle basi di Algeri e di Tunisi, si spinse a violare le acque e le coste del Tirreno. La prima volta fu nel 1534, con più di cento navi, già divenuto comandante della flotta turca ed alleato della Francia; i paesi dell’Isola d’Elba toccarono allora con mano la sua ferocia e la sua audacia.

Cosimo dei Medici decide quindi di inviare a Campiglia Marittima, 4000 soldati sotto il comando di Otto da Montauto, per proteggere i territori del comune, lo stato di Piombino e soprattutto i porti elbani.

La paura di un imminente attacco turco alla cittadina era tangibile, tanto che fu accordato ai Campigliesi di portare gli “archibugi a ruota”. Vennero incrementate le scorte di polvere da sparo e munizioni, e tutti gli abitanti del paese luogo furono impegnati in lavori di manutenzione straordinaria e di rinforzo delle mura.

La minaccia saracena su Campiglia continuò, tanto che il 26 ottobre del 1541 il comandante Otto da Montauto, scrisse a Cosimo I lamentandosi per il pericolo di nuovi attacchi e per la fuga degli abitanti dalla comunità.

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Nel 1552 Cosimo inviò di nuovo truppe a Campiglia, perchè dal 1551 navi saracene dell’Africa settentrionale avevano ripreso ad attaccare le coste della Toscana. Nel 1562 il duca fiorentino, che non si voleva limitare ad un atteggiamento difensivo, dava vita al Sovrano Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano 55 per attaccare direttamente sul mare i navigli nemici.

Non erano passati sette anni che alcuni equipaggi corsari tentavano di sbarcare sulla spiaggia dell’Alberese; ma la milizia Grossetana e la popolazione, prontamente intervenuta, li rigettava in mare ottenendo generose ricompense dalla stessa autorità medicea. Morto Cosimo I, questa “guerra del mare” era destinata a continuare per oltre due secoli.



Nel 1680, solo per citare un esempio, Il capitano Giovanbattista Montemerli di Campiglia venne ammesso nell’ordine dei Cavalieri di S.Stefano per essere riuscito a strappare dalle mani dei Turchi, una bandiera mentre stavano per impadronirsi del porto di Longone all’Isola d’Elba.

Per ricordare l’impresa la bandiera fu conservata nella Chiesa Montemerli fino al 1838 quando l’edificio fu disfatto.
Gli eventi legati alle incursioni barbaresche, hanno inciso profondamente nella memoria storica delle popolazioni soggette alla brutalità dei corsari, dando vita ad una serie di aneddoti che in queste zone vengono raccontati da secoli.

Aneddoti sugli attacchi dei Pirati a Campiglia Marittima




La tradizione orale sostiene che il Barbarossa attaccò il paese di Campiglia dall’interno, per l’unica via d’accesso in mezzo agli acquitrini; ma vistosi la strada sbarrata da insormontabili  fortificazioni, avrebbe sparato tre palle di cannone, sentenziando:

“Campiglia: can che piglia non piglia me!”.

Palle di cannone ancora  visibili, incastonate nelle mura.

Le palle di cannone sulle mura di Campiglia Marittima
Le palle di cannone sulle mura di Campiglia Marittima

Altro racconto spesso ricordato, è la leggenda di Ubertenga, fanciulla bella e gentile figlia del vasaio Admut che aveva una bottega artigianale e la casa in prossimità di Campiglia.

Un tragico mattino d’autunno giunsero i pirati saraceni a far razzia e a  distruggere case e chiese; morirono tragicamente anche il vasaio e la figlia barbaramente trucidati in un prato vicino alla casa natìa.

Per tanti anni giullari e cantastorie narrarono la vicenda ed il luogo della strage venne chiamato Corte Ubertenga. Nel prato dove era stata uccisa la dolce fanciulla cominciarono a spuntare le orchidee selvagge ed il vallino venne chiamato Prato dei Fiori . Il nome è  rimasto e la cosa più straordinaria è che è sempre fiorito anchequando non lo sono quelli adiacenti.

Presso il santuario del Frassine, a pochi chilometri da Campiglia, sono conservati come ex-voto una pesante catena ed i ferri che la corredano. La catena ed i ferri furono quelli con cui un giovane di  Monterotondo Marittimo, messosi in mare per commerciare, sarebbe stato rinchiuso in una cassa e gettato tra le onde della nave pirata saracena che lo aveva fatto schiavo.

Il suo continuo ricorrere all’intercessione della Madonna del Frassine, il suo vantarne le lodi, aveva indisposto i Turchi che ora lo volevano punire con l’annegamento e lo volevano beffare suggerendogli di rivolgersi alla sua sacra immagine.

Santuario Madonna del Frassine - Monterotondo Marittimo
Santuario Madonna del Frassine – Monterotondo Marittimo

Ma la miracolosa Madonna, secondo la tradizione religiosa, rispose davvero all’invocazione e la cassa apparve d’improvviso nel centro del piazzale del santuario, nel giorno di Pentecoste con il corredo di catene ed il malcapitato ma illeso giovane all’interno.

Da allora, a ricordo ed ex-voto per lo scampato pericolo, quei pezzi di ferro sono conservati all’ interno del santuario, al centro di una numerosa serie di immagini, oggetti e tavolette votive.

Bibliografia di riferimento

L’articolo è stato scritto facendo riferimento alle seguenti fonti bibliografiche:

I. FALCHITrattamenti popolari sulla storia della Maremma e specialmente di Campiglia Marittima, ristampa anastatica, Forni, Bologna 1974, p. 171.

A. ADEMOLLO, Monumenti medievali e moderni della Provincia di Grosseto, Forni, Bologna 1974, Ristampa anastatica dell’edizione di Grosseto 1894.

I. FALCHITrattamenti popolari, cit., p. 175.

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